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D A N I E L A P A R E S C H I
CREATIVITÀ E ILLUSTRAZIONI
D A N I E L A P A R E S C H I
CREATIVITÀ E ILLUSTRAZIONE
CARIE LETTERARIE - Sez. Zanne - 2016
Sull'asfalto (Perché ancora non era una strada)
Testo di Fabio Scibetta. Illustrazione di Daniela Pareschi
Nessuno pensava ai sindacati. O comunque, nessuno in quel momento ne parlava. Certo è che la loro condizione era più interessante per uno studioso dell’inferno dantesco che per un portavaligietteinpelleconcravatta. La condizione. La loro condizione: una nuvola appiccicosa e nauseabonda che si portavano dietro come un angelo custode. Il tutto accompagnato da una colonna sonora esasperante: un boato trattenuto e continuo, contornato da uno sferragliare da far stridere i denti. E in alto il sole, con la sua magnificenza da divinità arcaica fatta di luce abbagliante e calore insopportabile. Ma su di lui, sul sole, non si poteva stare tanto a recriminare. In fondo era estate, la stagione che finalmente dava il via ai vacanzieri assetati d’acqua salata, a riversarsi sulla spiaggia come torme di gnu in migrazione. Gioiosi gitanti che diguazzavano tranquillamente, ignorando l’ennesimo allarme sull’ennesima “straordinaria” ondata di caldo, declamata dall’ennesimo tg che smobilitava inviati lungo tutta la penisola per constatare che sì, effettivamente a Milano fa caldo, oppure a Napoli il sole spacca le pietre, o a Cagliari si cuociono le uova sull’asfalto. Anche d’estate si lavora. Michele, operaio addetto alla guida della macchina asfaltatrice era impegnato a guadagnarsi la pagnotta su un tratto imprecisato parallelo alla linea azzurra del mare, appena percepibile tra i fumi del bitume. - Michè, fermati che mangiamo. Pausa. Panino gommoso imbottito con mortadella sudata e birra miracolosamente fresca, grazie alla previdenza di Giuseppe, operaio addetto alla regolazione del bitume, un anno alla pensione se non spunta qualcosa di nuovo, che si era sobbarcato d’un gravoso peso: la borsa frigo. Di andare in un bar neanche a pensarci, in quel tratto di deserto non si scorgeva neanche un miserrimo chioschetto. Ogni tanto qualcuno avvistava all’orizzonte tremolante, un uomo con un ampio cappello di paglia e una borsa di quelle che si usano per vendere il cocco. Ma forse era solo un miraggio.
Michele terminò il suo panino che le mandibole gli dolevano. Il sole sghignazzava sulle loro teste con tutta la boria di un mezzogiorno di metà agosto. Il caldo imponeva una pennichella per aiutare la digestione. Così, chi dentro la Panda Van con tutte le porte spalancate come un granchio, chi sotto un cavalcavia non ancora terminato ma già decorato da arabeschi misteriosi e chi sotto un gracile bagolaro dalla chioma spennacchiata, conquistarono la loro chiazza d’ombra. Michele rimase sull’asfaltatrice. Era abbastanza alta da poter essere lambita da qualche flebile refolo proveniente dal mare e il tettuccio di plastica gli regalava un quadrato d’ombra. In più si godeva una bella vista su una distesa di cupolette colorate pigiate una sull’altra sulla riva del mare, come un surreale boschetto di alberi popputi dai colori improbabili. L’unico inconveniente era il sedile in similpelle che, se non fosse stato per uno straccio buttato sopra, avrebbe cotto il suo fondoschiena. Silenzio. Solo un lieve brusio dalla spiaggia in lontananza. Le cicale tacevano, faceva troppo caldo anche per loro. Michele dall’alto del trono valutava la sua creazione. Un bel nastro nero-blu, netto, perfettamente tagliato dentro la campagna arida. Ancora incompleta però, come una tela sbozzata, ma già aveva quel fascino, già dava quella sensazione di formicolio ai piedi: la voglia di vedere il paesaggio schizzare via dal finestrino. Senza il tratteggio invitante della mezzeria, senza le rassicuranti linee della corsia di sicurezza. La futura strada sembrava ancora più fiera, selvaggia ma già pronta per una fulminante rombata verso l’orizzonte con un bel macchinone tutto marmitte. Fissò l’orizzonte tremolante da dove, tra qualche tempo, migliaia di ruote avrebbero solcato quel fiume scuro, ignari del suo artefice. Mentre cercava di immaginare chissà quale bolide mordere il “suo” asfalto, tra cielo e terra, apparve una macchiolina gialla. Sembrava uno di quei ciuffi di stoppie che si vedono rotolare nelle terre desolate, intorno a mezzogiorno, nei film western. Però non c’era un filo di vento capace di spostare qualcosa del peso superiore a quello di una piuma di fringuello. Quel ciuffo si avvicinava, ballonzolando. Si rivelava come una cupoletta dorata. Dopo qualche minuto la cupoletta si trasformò in un caschetto biondo che sormontava una viso tondo seguito da un corpicino rosa decorato con un costume color rosa maialino: una bambina. Michele considerò per qualche istante il suo menù cercando di ricordare la presenza di qualche alcolico. Ma ho bevuto solo una birra! Il caldo? Forse sì. Certo quel miraggio era fatto bene. Ora era perfetto. Un metro circa di essere umano camminava saltellando con passo deciso verso di lui. Poi, con la nitidezza inimitabile della realtà, Michele si rassicurò riguardo alla sua lucidità, ma nella sua mente si ammucchiarono miriadi di domande sulla provenienza di quella bambina in quello stralcio di nulla. Quando fu abbastanza vicina gli apparve in tutti suoi dettagli. Un viso angelico, uno di quegli angioletti che svolazzano intorno a madonne sorridenti. Due occhioni azzurri dominavano su tutto. Però quell’armonia era scarabocchiata da un velo di rabbia. Quella rabbia quasi affettata dei bambini, teatrale, da cinema muto. Finalmente l’angioletto imbronciato raggiunse l’ombra dell’asfaltatrice. Alzò quelle due gemme di mare verso di lui e chiese: - Sei tu che fai la strada? Anche la voce, per quanto lieve, era irrobustita da un che di aggressivo, di inquisitorio. Michele sorrise paternamente e le rispose di sì. E quale fu il suo stupore nel sentire quel delicato fiore di montagna pronunciare con tutto la razionalità che poteva stare in quel piccolo corpo, un formidabile: - Stronzo! Poi le scene, negli occhi di Michele, si sovrapposero in un mosaico indecifrabile. La mano della bambina ebbe uno scatto repentino, qualcosa a metà tra un colpo d’ala di farfalla e lo scatto micidiale di una catapulta. Michele ebbe il tempo di dipingersi sulla faccia un misto di stupore e delusione. Fu un po’ un tradimento per lui ricevere un macigno (secondo lui; gli altri poi appurarono che si trattava di un sasso di medie dimensioni), in piena fronte. Il tettuccio dell’asfaltatrice, rumore di vetri rotti, un pezzo di cielo azzurro, un colpo sulla schiena. Poi tutto si allagò di rosso. Sentiva solo delle voci, forse due, un uomo e una donna che gridavano un nome, sempre più vicine, ma che faticavano a entrargli nelle orecchie. Una nebbia nascose tutto, tutto si dissolse. Rimase solo l’eco di quel nome che gli fluttuava nel cervello. Una falena contro un lampione. Angela, Angela, Angela… Angela… …Angela… … … Angela… … … … … … Le scene successive furono cancellate dal copione di Michele. Anzi, eliminarono proprio le pagine, tanto che, quando la sua coscienza ricominciò a rispettare la sceneggiatura, non riusciva a collegarla. Era illogico. Com’è che prima si trovava seduto sulla sua asfaltatrice e adesso era in mezzo ad un mare di un blu assurdo, popolato da ridicoli animali, meduse o polipetti. Michele sentì un gelo doloroso sopra gli occhi addolcito da un odore familiare. Cocco! Lo sceneggiatore della sua vita ebbe pietà di lui e sciolse l’enigma. Michele si voltò e vide la spiaggia: sotto un ombrellone a tinte esagerate decorato con animaletti marini si accalcava una piccola folla. Erano tutti in costume, a parte quattro ridicoli personaggi: tre a torso nudo e uno in maglietta accomunati da strani pantaloni arancione con strisce catarifrangenti. Nella visuale di Michele entrò una mano di donna che teneva fermo, sulla fronte di Michele, un sacchetto di plastica gocciolante pieno di ghiaccio e dall’odore è evidente che bisognasse ringraziare il venditore ambulante di cocco . - Come sta? Va meglio? Michele guardò il volto di quella donna preoccupata per lui. Provò ad alzarsi dalla sedia sdraio e delle braccia robuste premurosamente lo aiutarono. - Michè, stai bene? Ci hai fatto prendere un bello spavento! Michele si chiese cosa volesse intendere quello strano tizio con i pantaloni arancione. Poi guardò i suoi. Erano uguali. Finalmente fu chiaro, o quasi. I suoi compagni di lavoro erano intorno a lui insieme a un gruppo di bagnanti che lo avevano accolto. Ma perché si trovava lì in spiaggia? - Mi perdoni. Guardi, non so che cosa le è preso, non ha mai fatto niente di simile. La donna del sacchetto con il ghiaccio che non la smetteva più di scusarsi doveva essere la madre di… Angela. Ricordò la bambina che veniva decisa verso di lui. Tranquillizzò tutti, si fece largo e la piccola folla gli liberò la via. - È sicuro di stare bene? Ha perso del sangue. Non vuole che le chiami un’ambulanza? - doveva essere il padre. Michele si tastò la fronte e sentì la massa di un bel bernoccolo che gli pulsava sul terzo occhio, ma niente di più. - State tranquilli, non ho niente. - Non hai niente, Michè, come no! Stavi a pancia all’aria con la faccia piena di sangue che sembravi un Cristo. - No, no veramente. Sto bene... Ma cosa è successo? Il padre raccontò a Michele la storia. Angela, era in vacanza con la famiglia. Ogni giorno raggiungevano la spiaggia percorrendo un sentiero che veniva tagliato dalla strada a scorrimento veloce. Le macchine sfrecciavano e diventava un’impresa attraversarla. Dopo essersi accertati che non venivano auto da nessuna parte, si tenevano tutti per mano in una specie di carovana: papà, fratellino, mamma, Angela, zia, nonna e attraversavano. Il loro metodo evidentemente non era seguito però da quelle bestiole che ora decoravano orrendamente l’asfalto. Uccelli, rospi, topi, farfalle, ricci, lepri e anche cani e gatti. Era un tratto particolare per gli animali, passaggio obbligato per raggiungere una pozza d’acqua dolce. Non passava giorno che sull’asfalto non ci rimanesse qualche innocente e, anche se la famiglia di Angela cercava sempre di distrarre la piccola, lei riusciva sempre a vedere quel triste spettacolo. La bambina aveva assediato di domande tutti i familiari, anche il fratellino per sapere di chi fosse la colpa. Così le spiegarono che non era colpa di nessuno: né degli animali che erano costretti a passare di là per andare a bere, né delle macchine che erano costrette ad andare veloce. D’altronde se la strada si chiamava a scorrimento veloce un motivo doveva pur esserci. Angela parve capire e non fece più domande. Invece in silenzio aveva deciso che la colpa era della strada e, ovviamente, di chi le strade le fa. Il caso volle che si dovesse costruire un nuovo allacciamento stradale vicino alla spiaggia. Allora Angela si fece paladina di quelle povere creature, scelse una buona pietra e partì per fare giustizia. Ora Michele sorrise a questo racconto e chiese della bambina. La indicarono: era accucciata su uno scoglio, rivolta verso il mare. Sembrava ancora più piccola. - Le abbiamo spiegato che lei non ha colpa. Ha capito di aver sbagliato. Ha solo cinque anni, punirla non servirebbe a molto. Però ha capito che deve scusarsi con lei. Michele accantonò la sua personale idea di pedagogia e si andò a sedere accanto ad Angela. - Ciao. - … - Ho saputo di tutti quegli animaletti. Mi dispiace molto. - … - Sai, io avevo un cagnolino da piccolo e un giorno mi scappò nella strada mentre passava una macchina. - … - Anche a me piacciono gli animali. Be’, non era certo la Montessori, ma Michele non aveva nessuna voglia di perdere ancora tempo per avere le scuse di una bambinetta viziata con le manie da animalista. Il sole era quasi al tramonto. Una luce rosata velava ogni cosa, si respirava un’atmosfera di pace. Anche l’aria si era rinfrescata. Michele guardò i capelli d’oro di Angela ondeggiare nella brezza. Lentamente la bambina si voltò verso di lui. Michele le sorrise, pronto ad accettare le sue scuse. La bambina gli guardò la fronte e vide il bernoccolo incandescente. A Michele parve di veder nascere un sorriso innocente su quel candido viso che ora lo fissava dritto negli occhi. Sembrava avessero perso quella purezza cristallina per incupirsi verso un blu cobalto, come le profondità marine. Poi quel sorriso parve trasformarsi, le labbra presero una strana piega, anche gli occhi si socchiusero un po’. Pareva quasi… un ghigno di soddisfazione. E Michele ne ebbe la conferma quando la piccola Angela gli scaraventò in faccia, pronunciato con la stessa glaciale, diabolica razionalità della prima volta, un formidabile: - Stronzo!
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